Spunti di riflessione

Perché dovresti fare un percorso di “guida alla buona sessualità”?

Promuovere una buona sessualità, per me, è un dovere.
Vivere una buona sessualità, per te, è un diritto.

Vivere una buona sessualità, in assoluta libertà, nel pieno rispetto e tutela, di sé e dell’altro. Un grande atto d’amore.

La sessualità a tutte le età. Come approcciarsi all’inizio, e come mantenere un buon rapporto con la propria sessualità nel tempo.

La sessualità, un dialogo sensoriale, sensuale e sessuale.

Pregiudizi, ruoli, incasellamento, regole, diritti e doveri.

Gusti che cambiano, consapevolezza, libertà, autostima, retaggio culturale, sicurezza, igiene, sapere dire di no.

Dilatazione spazio temporale, energia e passione nella sessualità.

Relazioni “preziose”, relazioni tossiche, amore immaturo e amore maturo.

Sesso e Amore, un binomio perfetto?

Gioco e apprendimento nella sessualità. Le fantasie sessuali.

Anorgasmia, Eiaculazione precoce, Eiaculazione ritardata, Dispareunia, Cistite post coitale, Vaginismo, Assenza di Desiderio, Mancanza di Eccitazione.

Abuso, social network, cyber bullismo, pornografia, sexting, pedofilia, sesso, pornografia, amore.

Tre elementi fondamentali per una buona auto-valutazione: Priorità, Scaletta Valori, Sorriso.

Perché integrare la propria sessualità con sex toys, giochi di ruolo e fantasie?

Saper parlare di sesso e giocare con esso, senza imbarazzo e senza pregiudizio. Dialogo.

Sensi, sensazioni, emozioni. La trasformazione.

Monogamia privilegiata, relazione aperta, poli-relazione, non monogamie etiche e sessualità non convenzionale.

Principio di uguaglianza e non condizionamento.

Assunta Morosetti, Sessuologia e Relazioni, Vicenza.

ESPROPRIAZIONE DEGLI SPAZI E VIOLENZA CONTRO LE DONNE

  • Introduzione
  • Espropriazione dell’immaginario 
  • Espropriazione dello spazio pubblico
  • Espropriazione dello spazio urbano 
  • Espropriazione dello spazio privato
  • Conclusioni

Introduzione

Ogni soggett* tende ad occupare spazio che, premessa intrinseca dell’esistenza, diviene l’oggetto della rivendicazione di quell* il cui spazio non è rispettato. Lo spazio (che si può declinare in vari modi: fisico, economico, politico, pubblico…) è distribuito in modo ineguale e si presenta polarizzato: da una parte, laddove il tessuto sociale si allarga in lagune di privilegio, si espande a maglia larga, dall’altra invece, si raggrinzisce dove l’intersezionalità delle discriminazioni raggiunge in vari modi il suo triste apice. Tra i fattori della discriminazione, l’essere una donna costituiste motivo di grande penalità, a causa dell’organizzazione patriarcale e maschilista della nostra società la quale, oltre a comportare una sottorappresentazione della donna in vari ambiti (quindi una carenza di spazio), incarna il piedistallo culturale sui cui poggia la violenza contro le donne.

Ma approfondiamo meglio la nozione di spazio, che costituirà la lente analitica di tutto il testo.

Ciò che ci consente di intendere l’espressione “difesa del territorio”, che sia in un documentario di National Geographic, che sia in una lezione di storia, che sia sottointeso nella retorica della destra nazionalista, risiede nella consapevolezza che quel territorio non valga solo per la sua concreta materialità. Il territorio è lo spazio politico vitale di un* singol*, di una comunità o di un gruppo di comunità che si presenta come la precondizione per affermare il proprio dominio sopra un pezzo di terra: la proprietà. Il dominio di uno spazio si afferma attraverso il potere che viene esercitato in quel territorio da chi ne detiene la sovranità, e a sua volta il potere si esercita sullo spazio su cui il dominio si impone. Affermazione del dominio e esercizio del potere dunque, si rigenerano a vicenda.

Ma, affinché questo meccanismo non si spezzi, occorre mantenere il controllo su quel territorio, su quello spazio. Da qui la necessità della difesa del territorio, difesa da altr* pretendenti al potere, difesa dall’ “invasore”, difesa dalle rivoluzioni.

La difesa così intesa (che prima di tutto conserva una ben chiara distinzione dal concetto di resistenza) mira quindi alla riproduzione di un sistema preesistente, a vantaggio di chi detiene il dominio-potere. La sua prima arma è la costruzione di una narrazione che ne legittimi la sopravvivenza, attraverso la normalizzazione di quel dato sistema e la definizione del resto come “altro”, spesso demonizzato, rappresentato come sbagliato, inferiore o almeno, anormale. Così il sistema dominante si auto-consolida, cacciando fuori dai bordi dello spazio di chi merita una voce, un voto, un diritto politico, un diritto civile, un riconoscimento pubblico, una desinenza, tutt* quell* la cui espressione può mettere in discussione la riproduzione intatta del sistema vigente.

Chi, individu* o categorie, sono definiti come “altr*”, è ed è stato strutturalmente negato di occupare spazio con la voce o con il corpo, reprimendone l’espressione e riducendola al silenzio.

Questo semplicistico schema del potere-dominio versus rivendicazioni dei non-rappresentat*, risulta utile al fine di delineare il quadro entro cui mi muovo per parlare di spazio prima di tutto come spazio politico. In particolare vorrei indagare i principali modi in cui la discriminazione e la violenza contro le donne sono perpetuati, intessendoli attraverso il filo conduttore dello spazio e, di conseguenza, della difesa dello spazio, ovvero dell’espropriazione e del controllo.

Espropriazione dell’immaginario

L’immaginario collettivo è il più pervasivo spazio d’espropriazione, le donne sono sistematicamente sottorappresentate, dall’ambito storico a quello narrativo; esemplificativo può essere il test di Bechdel che misura l’uguaglianza di genere nei film, con degli esiti deprimenti. Quando si apre la finestra attraverso cui possiamo scorgere il femminile, essa è ritagliata nella forma e definita nei ruoli in funzione del maschile. L’uomo si determina, la donna è determinata, così ci viene insegnato, a tal fine è stato scelto un linguaggio binario che fissa due generi distinti: maschile e femminile, rivestendoli di ruoli stereotipati e profondamente diseguali. Il privilegio pende verso l’uomo bianco abile etero cis benestante che, impersonando un profilo forte e autorevole, si è sempre arrogato il diritto di tracciare le linee strutturanti la ragnatela dell’immaginario: a partire da un sé egocentrico, sono intessute tutte le altre categorie che si diramano lontane dal fulcro, differenziandosene per difetto. Fra queste, spicca quella delle donne che, pur rappresentando la metà della popolazione, è trattata come una minoranza rispetto alla norma androcentrica.

La donna, figura idealizzata nella sua bellezza o schernita per un corpo sgraziato, dai poteri salvifici e curativi o femme fatale, angelo del focolare o puttana, a seconda della sua sobria purezza, del suo concedersi appropriato o spregiudicato, è giudicata virtuosa o meno, in accordo ai contesti e al periodo storico. Ciò che permane è la tendenza a sottrarle la sentenza finale delle sue scelte sessuali o di vita, che non sono mai lasciate al loro posto, ovvero nello spazio della libera autodeterminazione personale.

La rivoluzione sessuale di fine anni ’60-anni ’70 è determinante nella liberazione dei corpi dal controllo di padri e mariti, ricordiamo in Italia la riforma del diritto di famiglia del 1975 e l’acquisizione nel 1978 del diritto all’aborto in Italia.

In questo frangente, la ribellione avviene in modo significativo anche attraverso la libertà di abbigliamento, che vuole spettinare le pudiche norme sociali di matrice cattolica. Questo fenomeno attraversa la cultura di massa, ad esempio attraverso icone della moda, il nudo nel cinema, le riviste pop, l’industria porno che conosce la sua età d’oro, la cultura giovanile in generale.

Se una tendenza vende, il mercato risponde, così la liberazione dei corpi si deve scontrare con le logiche del capitalismo neoliberista che, intrecciandosi strettamente alla cultura patriarcale ancora dominante, producono la perversa riespropriazione dei corpi. A testimonianza di questa, il documentario “Killing us softly” di Jean Kilbourne, rileva quanto il corpo femminile sia sessualizzato e oggettificato attraverso le pubblicità,  che suggeriscono all* spettator* che il valore di una donna non sia affatto scisso dalla sua apparenza estetica ma che anzi, questa debba allinearsi con un ideale di bellezza eterea pericolosamente illusoria. Attraverso la ripetuta rappresentazione del maschio come attivo o violento e della donna come passiva, vulnerabile e immancabilmente bella, si rafforza nella coscienza collettiva l’idea che la vera conquista per una donna, sia quella di essere scelta da un uomo per essere asservita a personale oggetto sessuale, mentre d’altra parte viene normalizzata la violenza maschile.

Il patriarcato insomma, s’indebolisce ma difende il suo dominio, incrostato nell’immaginario collettivo e nelle pratiche sociali, continuando a difendere la posizione della donna come dipendente dal desiderio maschile, nel rinnovato binomio uomo-cacciatore-consumatore e donna-preda-prodotto. 

Analogamente, questo stesso mercato che integra nel sistema la possibilità di fare carriera per le donne, non lo fa mai in nome di una parità reale. La promessa dell’indipendenza economica prevede infatti costi ben più alti rispetto ai coetanei uomini, soprattutto se nell’ambizione di una scalata professionale.

Questo perché in fondo -ma anche a galla-, è ancora radicata l’idea che una donna, prima di essere una lavoratrice, debba essere una brava mamma o almeno una compagna presente, perché una donna che scelga di lavorare, non deve mai farlo a costo di trascurare la casa o la famiglia: “un maschio fa le cose per un perché, mentre una femmina solo se ha un per chi” (Michela Murgia, Stai Zitta).  Quindi il lavoro delle donne si duplica, uno retribuito e uno -quello di cura- gratuito, a meno di potersi permettere di pagare un’altra donna di estrazione sociale inferiore, per ricoprire le mansioni che in un modo o nell’altro rimangono prerogativa femminile.

Quando una donna forza le trame del controllo maschile e si scrolla di dosso il suo ruolo di angelo del focolare, le viene fatto pagare il prezzo dell’uscita dalla categoria di santa, appioppandole quella di puttana -o strega-, l’altra metà del binomio. La donna che si autodetermina e che si riappropria del femminile, strappandola dalle dipendenze dell’uomo a livello concreto  e simbolico, che si riappropria del proprio corpo, della sua immagine, della scelta di generare, della sua dignità in quanto donna prima che di madre o di moglie, questa donna emancipata spesso crea un mostro narrativo: “il mostruoso femminile”.

Nel suo libro, Jude Ellison Sady Doyle presenta come l’evasione dal controllo maschile di figlie, madri, mogli, si traduca nella trasformazione in streghe, donne indemoniate, seduttrici pericolose che popolano miti, fiabe, film horror, investendo potentemente la simbologia dell’immaginario collettivo.

Il pubblico viene alfabetizzato a riconoscere in queste figure il segno di una pericolosa ribellione che va ripudiata, punita, distrutta, eloquenti i casi reali di omicidio presi ad esempio nel libro, che poco hanno di anomalo, visti gli agghiaccianti numeri odierni di femminicidio.

La caccia alle streghe, fenomeno che si concentra tra la fine del medioevo e la seconda metà del XVII secolo,  meravigliosamente immortalato dal romanzo storico di Geraldine Brooks, Annus Mirabilis, non resta il ricordo di un antico fanatismo religioso, si trasforma, ma si trascina fino ai nostri giorni, ad esempio esplodendo nei numerosi casi di esorcismo degli anni ’70, che fanno seguito all’uscita del film L’esorcista del 1973 (Il mostruoso femminile, Doyle).

La superstizione che si annoda al corpo e alle menti delle donne, si perpetua a diversi livelli ma è lontana dall’esaurirsi. Significativo si dimostra il caso di esorcismo a Vicenza, nel dicembre del 2021, quando una donna, probabilmente affetta da disturbi mentali, è stata trattenuta per nove ore al Santuario della Madonna di Monte Berico. Solo quando la ragazza “è crollata fisicamente” (cito il priore dei frati Carlo Rossato che ha lasciato un’intervista al Corriere del Veneto per aver partecipato alla “liberazione della posseduta”) è stata riportata a casa, tutto questo, nella totale assenza di soccorso di ambulanza e polizia che hanno atteso fuori dalla chiesa. 

La fondazione della Libreria delle donne  a Milano nel 1975, “significava un momento di lotta per un popolo senza scrittura”, fondamentale per creare un “pensiero della differenza” (Lea Melandri, La sfida del femminismo degli anni Settanta, Effimera)

Incarnando la stessa necessità, la lotta linguistica transfemminista attuale, nell’ottica della riappropriazione del linguaggio, mira a sradicare dall’uso comune, parole come “signorina” per appellare sconosciute, professioniste o lavoratrici, che immediatamente riporta la persona adulta di sesso femminile ad una ragazzina, infantilizzandola e implicitando che il rapporto “alla pari”dipenda dal matrimonio con un uomo. Da condannarsi ugualmente quando, giudicando un ossimoro descrivere un’esponente del “sesso debole” come “determinata”, si usano espressioni più avvedute come “donna con le palle”.

Altre battaglie linguistiche si attuano nel: rivendicare la declinazione al femminile per le qualifiche e i ruoli prestigiosi in quanto, tenerli “rigorosamente al maschile, è un’operazione che in fondo dichiara che questa donna sta occupando una carica di un uomo” ( Siamo le parole che usiamo, p. 63, Le parole che fanno bene e le parole che fanno male nei quotidiani, Nadia Cario); nello specificare il cognome delle donne (senza apporre l’articolo determinativo) negli articoli giornalistici, che troppo spesso le citano solo per nome o addirittura con appellativi che richiamano il loro ruolo di madri o di mogli; l’uso dell’inclusiva shwa.

L’espropriazione dello spazio dell’immaginario quindi, non è un’esclusione che si conclude tra le pagine di un libro, nei titoli di coda di un film o in uno spot pubblicitario, perché parole e miti costruiscono il mondo in cui abitiamo. L’interdipendenza tra linguaggio-immaginario e realtà percorre tutte le sfere dell’oppressione violenta perpetuata contro le donne. Analizziamola attraversando lo spazio pubblico, lo spazio urbano e lo spazio privato. 

Espropriazione dello spazio pubblico

Possiamo rappresentare lo spazio pubblico in generale, come  crocevia della vita politica, economica, commerciale, lavorativa, giudiziaria, attraverso l’eclettico emblema di agorà.

L’agorà è uno spazio di convocazione collettiva, convocazione che troppo spesso non è stata rivolta alla comunità intera, ma solo ad una sua fetta, di dimensioni diverse, crescenti, decrescenti, ma per la stragrande maggioranza del tempo esclusivamente maschile.  All’uomo è sempre stato concesso, anche se in modo differenziato a seconda dell’estrazione sociale o del colore della pelle, di allargarsi nella sfera pubblica, quindi di partecipare alla Storia.

L’orma del passaggio femminile è rimasta invisibile almeno fino ai movimenti femministi, e questo non solo perché nascosta dalle mura domestiche , ma anche perché in gran parte non è stata considerata, narrata, creduta. Cos’è questo spazio pubblico destinato alle donne ma sgomberato dalla loro presenza, dalla loro voce, se non uno spazio espropriato?

Costrette ad adattarsi allo spazio per difetto, ovvero dove rimaneva un vuoto, è confluito sulle loro spalle, sulle nostre spalle, il lavoro di riproduzione e di cura, un lavoro fondamentale al benessere della società, ma che “per le sue specifiche qualità di affection si è – da sempre – tentato di far passare per amore e dedizione: per questo lo si è pensato come incorporato nei ruoli da sempre attribuiti alle donne, tanto da incarnarne le identità sociali” (Alisa del Re, Cura e lavoro riproduttivo). Non lavoro dunque, ma predisposizione naturalmente femminile, equivoco che assolve gli uomini da una ripartizione equa del tempo dedicato al lavoro di cura, destinando ad altre il carico mentale (Emma Clit, Bastava Chiedere). 

Le lotte femministe hanno reclamato pezzo per pezzo la riappropriazione dello spazio pubblico, in Italia, le tappe fondamentali nel percorso di conquista della cittadinanza sono state ad esempio: l’abolizione dell’autorizzazione maritale nel 1919, il diritto di voto nel 1945 e maggiori diritti per le lavoratrici negli anni ’50.  

Ciononostante, le cittadine italiane continuano a relazionarsi con una società nutrita da un terriccio culturale ancora aridamente patriarcale, la discriminazione sessista che strutturalmente ne deriva, si ramifica in tutti i luoghi del vivere quotidiano, germogliando nel sistema d’oppressione che le lotte degli anni ’60 e ’70 si batteranno per sovvertire.

In questi anni i diritti delle cittadine conosceranno una spinta sostanziale, attraverso la piena acquisizione dei diritti civili e una maggiore acquisizione dei diritti di libertà e dei diritti sociali. L’onda della rivoluzione culturale porterà all’abrogazione del reato di adulterio del ’68, il diritto al divorzio nel 1970, la riforma del diritto di famiglia nel 1975, il diritto all’aborto nel 1978 e l’abrogazione del delitto d’onore nel 1981. 

Questi diritti essenziali proteggono la dignità della donna, difendono il suo diritto all’autodeterminazione e spingono verso l’eguaglianza formale tra uomo e donna, immortalata nell’articolo 3 della Costituzione che sancisce per tutt* l* cittadin* la pari dignità e l’eguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di sesso, ma l’esito vittorioso di queste battaglie non è ancora sufficiente per il raggiungimento di una parità reale.

L’ottenimento dell’ “abito pubblico”, con cui facciamo il nostro ingresso nell’agorà, non basta a renderci pari agli uomini, in quanto quell’abito è stato confezionato per un uomo da un uomo, o perlomeno certamente sotto le direttive di un uomo. Non è solo una questione di riappropriazione dello spazio pubblico, e quindi conquista dell’abito pubblico, ma anche di partecipazione alla scelta della forma di quell’abito, per poterlo adattare meglio alla tutela delle nostre libertà e dei nostri diritti, e fondamentalmente anche per ribadire che il tipo e la lunghezza del nostro vestito dipendono dalla nostra volontà.

Non basta che le politiche pubbliche agiscano “senza distinzione di sesso”, e questo per certi versi può rivelarsi addirittura frenante nel percorso del raggiungimento dell’ eguaglianza sostanziale, per la quale sono necessarie politiche di affermative action, ovvero di discriminazione positiva, anche se a riguardo ci sono ancora forti resistenze. 

“Ormai siete dappertutto” , oltre ad essere una frase che tenterebbe di tramutare la rivendicazione di diritti in pretese fastidiose e superflue, è il titolo di un capitolo di “Stai Zitta”. Qui, Murgia riflette in particolare sul goffo tentativo di raccontare la conquista della maggior rappresentazione femminile all’interno dello spazio pubblico, come un premio giudicato sufficiente per arrestare il processo di implementazione dei diritti. Dopotutto “non ci basta” quello che abbiamo? Sovrarappresentazione delle donne nella fascia della disoccupazione e del part-time; sottorappresentazione delle donne nelle posizioni lavorative ai vertici nel pubblico e nel privato; persistente squilibrio nella divisione del lavoro di cura; gap salariale tuttora esistente; carenza di ricerca scientifica sui corpi femminili, ancora considerati una variante dalla norma maschile; per non parlare delle lacune degli studi riservate agli effetti di farmaci e terapie sul ciclo mestruale o sulla gravidanza? 

Espropriazione dello spazio urbano

Che essere una donna in città costituisca un fattore che aumenta esponenzialmente il rischio di scontrarsi con episodi di catcalling, di subire stalking, di vedersi rappresentata come genere sessualizzato nei cartelloni pubblicitari, di venire molestata verbalmente, fisicamente o sessualmente nei mezzi pubblici o lungo le strade, è un fatto consolidato (https://www.ihollaback.org/cornell-international-survey-on-street-harassment/#it). Ma questo rappresenta solo una faccia dell’espropriazione urbana, che linearmente ricalca e segue la cultura sessista applicata a tutti gli altri ambiti sociali. 

Sentirsi minacciate agendo la città semplicemente come cittadine, rende impossibile riconoscersi e sentirsi a proprio agio in uno spazio, perché quello spazio non rispetta la nostra dignità come persone e in quanto donne. L’altra faccia dell’espropriazione è invece quella che si rafforza della narrazione che viene fatta delle “zone a rischio” e di come una donna debba sentirsi o debba agire, ovvero rispettivamente: insicura e decorosamente.  Inoltre, le zone a rischioovviamente si sottintende di essere stuprate o ammazzate, dato che il catcalling non è ancora considerato a pieno titolo, dalla coscienza comune, un atto lesivo della dignità di una persona- vengono fatte coincidere con le periferie, tipicamente luoghi di degrado, e gli aggressori, con tutta probabilità, con “gli immigrati”.

Sì, perché i luoghi di degrado diventano tali a causa di “soggetti degradanti”, e sta alle donne cercare di evitare “certe zone”, “certi abbigliamenti” e magari anche di andare in giro quando fa buio. Il problema non è risolto alla radice, ad esempio con delle politiche di welfare, che nelle zone di disagio sociale potrebbero contribuire a migliori condizioni di vita, e quindi ad alleviare il cosiddetto degrado. Si sceglie invece di investire sulle politiche securitarie, come videocamere che svolgano una funzione di controllo, o palliativi controproducenti, come applicazioni di zonizzazione che indicano “percorsi rosa” più sicuri, i quali, scavalcando la fonte del problema, dichiarano che una donna è di fatto una vittima sempre possibile, consegnando nelle sue mani la responsabilità di evitare certi rischi.

“Nel binomio con la questione della violenza di genere, la paura diffusa dalle retoriche securitarie (rinforzata da quelle legate  decoro e degrado) agisce sui corpi delle donne un dispositivo fortissimo e molto pervasivo di esclusione” (Violenza e spazio urbano. Oltre la sicurezza, verso l’autodeterminazione, Federica Castelli).

La città neoliberista apre le porte alle donne, in quanto attrici economiche, nella chiamata alla produzione e al consumo, ma contemporaneamente delimita gli spazi che queste possono agire, ovvero quelli sotto il controllo del maschio bianco etero cis benestante. In questo modo si sospende il diritto alla città, perché lo si fa dipendere dalla concessione e dalla protezione maschile. Oscurando l’autodeterminazione, precipitano le fondamenta dei diritti di libertà.

“Nella città contemporanea le espulsioni dallo spazio pubblico hanno un’immediata portata politica” (ibid). L’espropriazione delle donne dallo spazio urbano assume una dimensione marcatamente fisica, che si perpetua attraverso il controllo dei corpi femminili. 

Essi assumono, interagendo con lo spazio materiale, una posizione sessuata, ovvero “ciò che qualcuno è, fa, agisce, succede nello spazio ed è il risultato di una rete di relazioni” (Giardini, Città Stellari, La libertà è una passeggiata). Il tema della posizione sessuata delle donne nello spazio è essenzialmente connaturato nel dibattito femminista. Non a caso, il sistema sessista di espropriazione è ed è stato combattuto da pratiche di riappropriazione dello spazio urbano, esercitando l’autocoscienza e il mutuo-aiuto attraverso circoli, librerie (emblematica la Libreria delle donne di Milano), centri antiviolenza,  consultori, gruppi di self-help autogestiti (Giada Bonu, Mappe del desiderio. Spazi safe e pratiche transfemministe di riappropriazione dell’urbano).

“Manspreading” è un termine anglosassone usato per indicare la tipica circostanza che si verifica quando una donna, seduta affianco ad un uomo in un mezzo o in un luogo pubblico, si trova costretta a stringersi in sé stessa per occupare meno posto, mentre invece il vicino a gambe larghe, senza rispettare lo spazio personale altrui, assumendo che una donna necessiti di minor spazio e  naturalmente che questa debba tenere le gambe chiuse, si appropria del diritto di invadere comodamente il posto dell’altra. Chiudo il paragrafo con questa immagine metaforica.

Espropriazione dello spazio privato

Quando l’espropriazione generalizzata dello spazio della donna si sposta tra le mura domestiche, la violenza si rivolge alla parte più intima della persona, qui lo spazio espropriato è direttamente quello dell’esistenza. Qui, l’uomo abusante, gonfio della legittimazione a occupare  spazio accumulata nelle sfere dell’immaginario, del pubblico e dell’urbano, invade prepotentemente lo spazio casalingo. Qui, più che altrove, violenza e controllo lasciano segni nella carne e nell’anima.

Come dimostra un’indagine dell’Istat: “Ha subìto violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner il 13,6% delle donne” mentre, ” da parte di uomini non partner: il 13,2% da estranei e il 13% da persone conosciute. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner o ex” (Numero delle vittime e le forme della violenza, Istat).

La violenza domestica contro le donne si declina in varie forme: economica, psicologica, fisica, culminando nello stupro e nel femminicidio. Nessuna di queste è causata da un “eccesso d’amore”, né da un “raptus di follia”, come spesso la narrazione dei media fa intendere, ma sono frutto della concezione della donna come oggetto di proprietà (Maledetta sfortuna, Carlotta Vagnoli), ereditata dalla struttura tradizionalmente patriarcale di famiglia e società. 

Se da un lato l’attenzione mediatica data alla violenza contro le donne fa emergere il fenomeno nella sua dimensione allarmante, sensibilizzando l’opinione pubblica, dall’altro  sceglie una retorica fuorviante.  Spesso il femminicidio è descritto come un atto irrazionale causato da un uomo in preda ad un sentimento non corrisposto, spostando l’attenzione dagli atti compiuti dal carnefice alle sue emozioni, lasciando velatamente sospeso il giudizio delle responsabilità. Stesso slittamento che avviene quando si commette la negligenza di vittimizzare la donna, muovendo il focus dall’aggressore all’intrinseca vulnerabilità della donna, in un’ottica paternalista che mal riconosce nella violenza domestica, la necessità di rivoluzionare il modello patriarcale e sessista in tutte le sue forme.

Ancora una volta, da imputare è il dominio culturale ancora fortemente radicato che, parlando dell’Italia, trova la sua evidenza se pensiamo che fino al 1963 era in vigore lo ius corrigendi, che solo nel 1975 è stata abolita la potestà maritale e  nel 1981 il matrimonio riparatore. 

Le pratiche di autocoscienza degli anni Settanta aiutano a far emergere la violenza domestica come problema condiviso, sollevandolo attraverso lo slogan “il personale è politico”. Così, la violenza contro una donna, è l’ennesimo spazio espropriato alle donne, intrecciando la vicenda individuale alla comunità femminile. Questo passaggio non mira ad oscurare la vicenda individuale, ma fonda una rete collettiva di condivisione e sostegno, che riesce a svelare dietro alla violenza, un fenomeno diffuso e sistemico che ha le sue radici negli stereotipi di genere (Maledetta sfortuna, Carlotta Vagnoli). Nel sistema patriarcale, il ruolo della donna si realizza nella cura dell’uomo e nella sottomissione di corpo e mente al suo controllo, è precisamente questa la dinamica che determina la violenza domestica. 

“Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi.”( Antonella Picchio)

Conclusioni

Una donna che subisce violenza è una donna a cui sono stati calpestati lo spazio del respiro, lo spazio del rumore, lo spazio del pensiero. Vorrei concludere con questa poesia, intima ma politica, perché se il personale è politico allora questa grande vastità di spazio espropriato riguarda tutte, e tutte abbiamo il diritto di riappropriarci del nostro spazio.

MANDARINI

A volte basta avere le mani sporche di mandarino

per non avere paura

la paura vive dei ricordi stessi

in cui l’abbiamo incontrata

Conosci la paura

quando metti un piede fuori posto

e vieni spinta

e il tuo equilibrio si rompe

e capisci che fuori dal tuo spazio

non puoi sentirti al sicuro

Quando conosci la paura

non metti più i piedi fuori posto

quando attenta e ferma nel tuo spazio

vieni spinta

conosci la violenza

e capisci che neanche nel tuo spazio

puoi sentirti al sicuro

La paura vive dei ricordi stessi

in cui l’abbiamo incontrata

una paura che conosci

è un mostro che vive dietro al tuo orecchio

e che ti spaventa

se metti un piede fuori posto

ti grida nell’orecchio

e tu prendi paura

e così ti ricordi

che devi rimanertene nel tuo spazio

e che nel tuo spazio

se proprio devi appoggiare i piedi

devi farlo in silenzio

per non disturbare lo spazio della paura

La paura vive dei ricordi stessi

in cui l’abbiamo incontrata

e se impari a vivere con un piccolo mostro

dietro all’orecchio

ritrovare l’equilibrio

fa paura

ritrovare lo spazio

fa paura

perché non sai dove mettere i piedi.

Ma a volte basta avere le mani sporche di mandarino

per non avere paura

perché se il profumo dei mandarini

è il tuo spazio

allora quello è il tuo primo luogo contro la paura

e in quello spazio

nessuno

può farti perdere l’equilibrio.

Angela Vergerio

Bibliografia

  • Annus mirabilis, Geraldine Brooks 
  • Cura e lavoro riproduttivo, Alisa del Re
  • Il mostruoso femminile, Jude Ellison Sady Doyle
  • La libertà è una passeggiata, donne e spazi urbani tra violenza strutturale e autodeterminazione, Chiara Belingardi, Federica Castelli, Serena Olcuire
  • La sfida del femminismo degli anni Settanta, articolo su Effimera, Lea Melandri,
  • Maledetta sfortuna, Carlotta Vagnoli
  • Siamo le parole che usiamo, Veronica Bacci Bonivento, Nadia Cario, Julia di Campo, Alisa del Re, Bruna Mura, Lorenza Perini
  • Stai zitta, Michela Murgia
  • Video “Il corpo dello stato. La carne della donna come spazio politico”, Michela Murgia
  • Video “Il legame insospettabile tra amore a violenza”, Lea Melandri
  • Video “Killing us softly 3”, Jean Kilbourne